Editoriale

Il clamore sul caso di Piergiorgio Welby, malato di distrofia muscolare in stato così avanzato da essere tenuto in vita artificialmente, è ormai sopito da tempo. Di certo non riveste più l’interesse mediatico dell’attualità; ormai è trascorso oltre un anno da quando il dottor Mario Riccio ha staccato la spina, suscitando un coacervo di reazioni, nelle quali ognuno si arrogava l’illusione di essere il paladino della “verità”.

Da allora ad oggi i canali di informazione ci hanno proposto altri casi, simili, ma ognuno con le sue proprie peculiarità di tragedia e sofferenza.

Il mondo è bello perché è vario”, recita un detto popolare, a tal punto che il medesimo avvenimento suscita reazioni di grande condivisione o di totale indignazione. Sul tema dell’eutanasia si è detto e scritto molto, troppo. Tuttavia è anche troppo importante per tacerne.

Anzitutto qual è il valore di una vita che non può più avere la dignità umana? O meglio: qual è la qualità della vita quando la sofferenza è atroce e irreversibile e non permette più un’esistenza dignitosa? In molte terribili circostanze rimane solo la dignità di una buona morte. Perché negarlo?

Forse perché noi temiamo la morte. Ci comportiamo, quasi sempre nella vita, come se vivessimo in eterno con il corpo fisico, senza mai pensare che ogni istante potrebbe essere l’ultimo. Preferiamo condannare un nostro simile a patire atroci sofferenze, piuttosto che ammettere l’idea della morte, come per esorcizzare la possibilità che noi stessi moriremo.

Accanimento terapeutico? Vita artificiale? Ma qual è il senso di difendere a oltranza e oltre ogni ragionevole buon senso un corpo come se noi fossimo solo un agglomerato biochimico e non qualcosa in più. Se veramente siamo spirito, lo spirito sorride delle nostre sterili diatribe, come lo spirito di Welby sorride a tutti coloro che classificano il bene e il male in ordinate “caselline mentali”.

Già, il più delle volte noi siamo abituati a giudicare in base a preconcetti che abbiamo ben “incasellato”, e dei quali ci avvaliamo quando dobbiamo prendere una decisione. Il pensiero incondizionato è merce rara, e non fa parte dei nostri acquisti.

Personalmente ritengo, semplicemente, che debba essere il malato a decidere, senza che altri abbiano la facoltà di scegliere tra la vita e la morte. Chi siamo noi a sostituirci a Dio? Qualcuno grida. Appunto! Iniziamo intanto a non sostituirci al nostro prossimo, condannandolo a soffrire atrocemente per difendere una nostra ipocrita e contraddittoria visione di diritto alla vita, alla vita che quotidianamente invece calpestiamo nelle piccole e grandi cose. In quanto a Dio, poi, non credo proprio che sia il Signore a volere cinicamente la nostra sofferenza, ma piuttosto che la causa sia da ricercare nella nostra stessa condizione umana, così fragile e imperfetta.

Ma, se noi crediamo veramente, allora dobbiamo rallegrarci, perché lo spirito di Piergiorgio Welby ora è finalmente libero.

Stefano Beverini