Editoriale

Questo numero esce a dicembre, in prossimità delle feste natalizie e del nuovo anno. Di solito, in questa occasione scrivo qualcosa sul tema, e porgo i miei auguri ai lettori. Ma oggi sento di avere cose che ritengo più importanti da dire, che non rallegrarVi con un racconto natalizio.

Voglio parlare di ipocrisia, di bambini, e di handicap. Più esattamente, di bambini con handicap.

Su questo argomento si è già detto e scritto ampiamente. Ma anche con molta retorica, con molti luoghi comuni, e, mi pare, con molta ipocrisia. Voglio provare a dire qualcosa di diverso, forse provocatorio, ma profondamente sentito.

Ovviamente non tutti gli handicap sono uguali: esistono disabilità fisiche, psichiche, sensoriali, leggere, gravi e gravissime. Esistono handicap terribilmente pesanti, a tal punto che è difficile identificare l’essere umano in certe mostruose deformità, ma esistono anche handicap oltremodo subdoli, apparentemente meno gravi, ma ugualmente devastanti. Ogni persona disabile ha una sua storia.

Una sindrome di Down, di solito, è abbastanza evidente. Non altrettanto manifesti sono certi ritardi intellettivi, disturbi di coordinamento motorio, difficoltà di linguaggio... Di questo voglio dire, di quei "bambinoni" un po’ troppo cresciuti, di solito molto affettuosi, anagraficamente ragazzi, ma nella mente ancora troppo piccoli per poter affrontare il mondo.

Sono i bambini "ritardati", con qualche caratteristica autistica, sono quelli che quando li vedi non te ne accorgi subito, finché non li senti parlare, o finché non reagiscono in modo improprio a qualche stimolo.

Hanno maledettamente bisogno di aiuto ma, a differenza di handicap più gravi, come la citata sindrome di Down, è più difficile comprendere i loro bisogni. Molte loro difficoltà possono venire interpretate come pigrizia, o come capricci. Sanno leggere e scrivere, a modo loro, e alternano ragionamenti puerili, ripetitivi, ossessivi, con altri del tutto normali. Talvolta non riescono a comprendere concetti semplicissimi, talvolta capiscono ogni cosa. A tratti appaiono anche dissociati, con diverse personalità non integrate e parzialmente alternanti. Ascoltano tutto, memorizzano, assimilano…

Per i genitori, sono i bambini più difficili da accettare. Gli handicap gravi, o gli accetti o li ricusi, da subito, spesso senza compromessi, nel bene e nel male. Ma quelli più lievi emergono magari a tre o quattro anni, ed è difficile adeguarsi a quello che fino ad allora ritenevi fosse un figlio normale.

Ecco inevitabili sorgere i compromessi, con se stessi e soprattutto con gli altri. E man mano che il bambino cresce, e si diversifica dalla normalità, è sempre più scomodo accompagnarlo ai giochi o ai giardini, è sempre più difficile affrontare il falso pietismo degli altri genitori, o di chiunque incontri per strada.

Nello stesso tempo, di fronte alla società, dev’essere considerato "normale", e la "parola d’ordine" è che dev’essere integrato a tutti i costi. Soprattutto a scuola. E quello che può accadere è tremendo.

"Una scrittrice che conosco ha messo il suo bambino autistico in una classe normale: è stata un’esperienza terribile. Gli altri sapevano che lui non era uno di loro. Lo provocavano, lo tormentavano, lo evitavano; così lei, disperata, lo ha spostato in una scuola per bambini autistici. E adesso, per la prima volta in vita sua, ha degli amici. Si scrivono e-mail, parlano al telefono per ore … e sono felici. Ma allora la sua esperienza scolastica è fallita? … Con questi bambini, è come voler infilare a tutti i costi il pezzo quadrato nel buco rotondo: a furia di martellare il pezzo si rompe. La scuola normale può causare all’autistico una abnorme infelicità; crescere in una società normale può trasformarlo in un adulto sofferente. È questa la buona riuscita? È questa la normalità? Perché integrarlo a tutti i costi, se è questo il prezzo da pagare?"

Così si esprime Paul Collins, nel suo libro Né giusto né sbagliato (2005). Pochi, al giorno d’oggi, sono d’accordo con questo autore: eppure, mi sento di affermare che lo condivido. E vorrei aggiungere che oltre ai bambini, troppo spesso anche gli insegnanti tendono a comportarsi con grande cinismo, perché il diverso da fastidio, sostanzialmente "non è accettato, non deve esistere, e comunque va punito".

Il bambino, cosa può fare? E’ solo, contro tutti. Non può neppure denunciare gli abusi, e non tanto perché ha paura, ma perché non viene creduto, neppure dai genitori.

I genitori… in loro, lento, ma inesorabile, cresce il senso di ipocrisia. E un po’ anche il velato senso di vergogna, o di colpa, spesso inconsci, ma condizionanti. Allora prevale, nei confronti del bambino, la fuga dal sociale, e l’isolamento.

Poi ci sono gli innumerevoli problemi quotidiani, e il tempo da dedicare al figlio "diverso" si riduce sempre più. Coinvolgere il bambino ritardato nelle normali attività, è terribilmente faticoso. "Meglio" parcheggiarlo di fronte alla televisione e ai giochi elettronici, nei quali sembrano esprimersi le migliori capacità del figlio: peccato che quelle relazionali siano un disastro…

"Per questo, il compito naturale dell’educazione di questi bambini (con ritardo mentale) è l’instaurazione di quelle reazioni vitali più indispensabili che potrebbero realizzare un seppur minimo loro adattamento all’ambiente, fare di loro membri utili della società e rendere la loro vita sensata e attiva. I metodi di insegnamento per tali bambini, in generale, coincidono con quelli normali, soltanto il ritmo è un po’ affievolito e rallentato. È estremamente importante, dal punto di vista psicologico, non rinchiuderli in gruppi particolari, ma stimolare nella pratica, più ampiamente possibile, i loro rapporti con gli altri bambini. Le considerazioni pedagogiche pratiche sull’opportunità di un’educazione arrivano a volte in questi casi a una contraddizione con le esigenze psicologiche. Per esempio quando si presenta il principio della scuola ausiliaria: alcuni pedagoghi ritengono che la separazione dei bambini ritardati in scuole speciali non è sempre utile sebbene, dal punto di vista della realizzazione dei programmi, sia desiderabile liberare le scuole comuni dai bambini che rimangono indietro. Tuttavia, nei casi di ritardo più grave, non esiste alcun dubbio sul fatto che siamo costretti a incaricare dell’educazione di tali bambini scuole create appositamente per questo. "

Sono parole di Vygotskij, tratte dal suo volume Psicologia Pedagogica, che risalgono addirittura al 1926, ma sembrano attualissime. Anche queste condivido, come quelle di Paul Collins, seppure tra i concetti espressi dai due autori sembra esservi contrasto. A mio avviso, è ancora la nostra ipocrisia che crea le incoerenze e ci impedisce di cogliere nel profondo i problemi, e di porci sul medesimo livello dei nostri bambini, e di comprenderli.

L’integrazione a tutti i costi vale come uno slogan: se non viene costruita giorno per giorno, nel concreto, oltre che inutile, è anche dannosa. E non mi riferisco alla mera integrazione scolastica, pomposamente auspicata da vari autori, ma a quella più ampia, e più vera. Prima di "integrare" occorre identificarsi con le esigenze del bambino ritardato, e soprattutto occorre metterlo in condizioni di integrarsi realmente. Altrimenti saremo comunque a posto con la nostra coscienza, e la nostra consueta ipocrisia, ma il bambino, nella sua interiorità, avrà solo acuito il senso di diversità, di isolamento, e di emarginazione.

Mi riferisco all’integrazione nella società: essa non è un’astrazione ideologica, ma anzitutto sono i genitori, poi i parenti, poi tutti gli altri che "inciampano" sulla nostra strada, dandoci una mano, o affossandoci.

Occorre realmente volerla, l’integrazione. In certi casi è più comodo assecondare il bambino ritardato in ogni cosa, per evitare reazioni difficilmente "gestibili", senza sospettare la possibilità che possa diventare un inconsapevole despota, o che gli aspetti peggiori della sua frammentata personalità possano prendere il sopravvento.

In altri casi, invece, è più vantaggioso "incassare" tutti i benefici economici, e ridurre il disabile in una larva umana, un ebete dallo sguardo vitreo, non importa se in un istituto o in famiglia, in modo che il "conto della serva" abbia il segno positivo. Ma questi sono casi estremi, rari ma reali.

Molto più comuni, come detto, sono tutti quegli esempi meno definiti, "borderline" in senso lato, nella patologia ma a tratti confinanti nella normalità. Sono i casi meno appariscenti, più sfuggenti, ma più esposti proprio alle incomprensioni e alle ipocrisie. E qui mi fermo…

Il Santo Natale è vicino. Può essere un’occasione per avvicinarci con amore a questi bambini, e non per ritirare un bonus da incollare sulla "tessera punti" per garantirci un posto privilegiato nell’aldilà, ma semplicemente perché sentiamo giusto farlo. Buon Natale!

Stefano Beverini